Questo 4 marzo la Francia è divenuta il primo Paese al mondo a inserire espressamente il diritto all’aborto nella Costituzione, il che calza a pennello con la Giornata internazionale della Donna dell’8 marzo distinguendosi come un Paese dedito alla salvaguardia dei diritti delle donne e della loro emancipazione.
Notizie di questo tipo sono uno spiraglio di luce in un contesto storico delicato come il nostro, in cui l’uomo si scandalizza dinanzi ad una donna che decide di abortire, accusandola di omicidio, ma promuove e finanzia le guerre, come se quelle non fossero il primo tipo di infanticidio di massa esistente al mondo.
Oriana Fallaci parla di questo in “Lettera a un bambino mai nato”, un dialogo interiore di una donna che scopre di aspettare un figlio e guarda alla maternità non come un dovere ma come una scelta personale e responsabile.
Non è un libro che si incentra sull’essere “pro o contro” l’aborto, bensì è la storia di una donna che rimane per tutta la durata del libro anonima, che forse non ha un nome proprio perché non si incentra sulla storia di una ma su quella di tante donne, che dal primo giorno in cui scopre di essere in compagnia dialoga con la “cellula” dentro il suo grembo che cresce ogni giorno sempre di più, e tratta tutte le tappe fondamentali di questa crescita e le conseguenza che essa provoca.
Questa lettera può essere considerata come un paradosso, poiché più che di morte parla di vita.
È una riflessione della donna protagonista riguardo alla vita a cui potrebbe essere sottoposto suo figlio. Una vita che si basa sulla violenza che si dimostra nella società in tante, troppe sfaccettature: vale la pena nascere per soffrire? Vale la pena uscire dal grembo della propria madre, in cui si vive senza servire nessuno per diventare schiavo del mondo?
Il romanzo è anche una riflessione sulla vita dell’ipotetica madre: rinunciare al proprio lavoro, alla propria vita e rinunciare ad una realtà da non distruggere a vantaggio di una realtà sconosciuta.
È un libro attuale perché, nonostante sia stato scritto ormai circa cinquant’anni fa, il percorso di una donna che deve fare una scelta così importante non cambia neppure oggi: purtroppo non si tratta di una decisione individuale da parte di colei che ne subirà le conseguenze in prima persona, ma si tramuta in un vero e proprio “processo” in cui ci sono giudici e giurie e la donna rimane sempre una semplice imputata, che subisce passivamente e non controbatte.
Per fortuna, “processi” del genere non saranno più concessi in Francia, con il buon auspicio che questo possa essere d’esempio anche agli altri Paesi, per un futuro in cui l’uguaglianza esiste per davvero e non si è schiavi di nessuno, proprio come quando tutti noi eravamo nel grembo delle nostre madri.